Naufragar m’è dolce in questo mar
L’uomo è un naufrago dalla nascita. Pesce nel grembo materno, è l’unico mammifero che riesce a sopravvivere sulla terraferma, una volta spiaggiato alla nascita.
Un iniziale naufragio che prelude e che determina la vita.
Il marinaio sente il primordiale anelito a ritornare nell’infinito mare, come un ritorno al grembo materno. In francese la madre si chiama la mère, il mare la mer.
Il naufragio sigla l’inizio della vita, ma ne può determinare la fine. Il naufragio può essere l’atto finale, il può temuto dal marinaio. Affrontare il mare comporta anche il rischio, sempre incombente, del naufragio.
È il paradosso di chi va per mare: si abbandona la sicura terraferma per un richiamo irresistibile verso un elemento, quello marino, da cui si proviene ma che ne può rappresentare anche la fine.
Prospettiva apocalittica connessa all’inconscio collettivo del navigante che ama…galleggiare allegramente tra la vita e la morte.
Navigando su una barca, soprattutto se a vela, ci si condanna ad un mezzo di trasporto il più scomodo ed instabile con la preoccupazione costante di aver sempre acqua sotto i piedi, né più né meno della preoccupazione del terricolo di aver terra sotto i piedi.
“Sempre il mare, uomo libero, amerai, perché il mare è il tuo specchio; tu contempli nell’infinito svolgersi dell’onda l’anima tua, e un abisso è il tuo spirito non meno amaro.
Godi nel tuffarti in seno alla tua immagine” (Charles Baudelaire).